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venerdì 30 settembre 2016

Il turismo in Italia è cresciuto (Ma restiamo solo quinti).

Il turismo in Italia è cresciuto (Ma restiamo solo quinti).
L’aumento degli arrivi in Italia è stato inferiore rispetto al boom di Spagna, Grecia e Scandinavia. Nell’anno dell’Expo milanese siamo rimasti al quinto posto nella classifica mondiale stilata per numero di arrivi internazionali.

Bicchiere mezzo pieno: il turismo internazionale nel 2015 è cresciuto del 4,4%: cinque volte e mezza più del Pil italiano (+0,8). Evviva. Bicchiere mezzo vuoto: siamo sotto la media Ue e mediterranea. 

Nonostante l’Expo, per dirla con Renzi, fosse «un’opportunità straordinaria». Una delle due: o la grande giostra di Rho non ha portato affatto moltitudini di stranieri o il nostro turismo è così fragile da non tenere il passo del boom mondiale perfino nell’anno dei riflettori planetari. Per carità, lamentarsi soltanto sarebbe un delitto.
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Una crescita di quasi quattro punti e mezzo in un settore strategico, in questi anni, difficili tira su il morale. Ci sono momenti, però, in cui è un delitto perdere certi autobus. E il nuovo rapporto dell’Unwto (United Nations World Tourism Organization) con burocratica perfidia (poteva anche non farlo) ci ricorda appunto questo: era l’anno della Expo. Esibita, ricordiamo sommessamente, come un trionfo. Quanti sono stati gli stranieri arrivati a Rho? Inutile cercare nella Relazione sulla Gestione dell’esercizio al 31 dicembre 2015: il termine «stranieri» c’è due volte. Ma non riferito ai visitatori. Se fossero stati, come si stima, sei milioni cosa vorrebbe dire? Che senza l’Expo ne avremmo persi, rispetto al 2014, quattro milioni? In un anno di vacche grasse?
Leggi anche: Le città d'arte italiane rappresentano una delle mete più ambite del turismo culturale mondiale.
Il dossier.
Ricorda il dossier Unwto che nel 2015, a fronte delle difficoltà dell’Africa (-3,3% a causa probabilmente dei timori per la sicurezza sulle spiagge della Tunisia, del Mar Rosso, del Kenya…) gli arrivi di turisti internazionali sono passati da un miliardo e 134 milioni a uno e 186: 52 milioni in più. Con una crescita del 4,7 per cento in Europa (7,3% nei Paesi del Nord, 5% nell’area mediterranea), del 5,6 per cento in Asia, del 5,9 in America. Ancora più impressionante il confronto sui dati del 1990: quelli che potevano permettersi di andare in vacanza all’estero erano 435 milioni. Un botto, in tre lustri, del 172%. Eppure, anche se ce la tiriamo sul «Paese più bello del mondo», continuiamo a perder posizioni e quote. Lontani i tempi in cui eravamo primi (1970, davanti a Canada, Francia, Spagna e Stati Uniti) anche nel 2015 l’abbiamo sfangata restando al quinto posto con 50,7 milioni di arrivi internazionali dietro la Francia (84,5), gli Stati Uniti (77,5), la Spagna (68,2) e la Cina (56,9). Sugli incassi, siamo slittati al settimo posto dietro la Gran Bretagna, che ha un terzo dei nostri siti Unesco e non può manco infastidirci sul piano culturale, balneare ed enogastronomico, e perfino dietro la Thailandia. Che incassa dai visitatori stranieri cinque miliardi più di noi.

Le difficoltà.
Una tabella rielaborata dalla studiosa Silvia Angeloni su dati Unwto è chiara: pur restando «una superpotenza turistica culturale», per dirla col premier, le difficoltà rispetto ai principali concorrenti sono visibili. E non bastano gli esempi virtuosi sottolineati da Dario Franceschini, come «quello di Mantova Capitale Italiana della Cultura 2016 che nei primi tre mesi ha registrato una crescita del 39% dei turisti e del 42% degli ingressi nei musei», a spalancare scenari ottimistici. Se come dice il ministro della Cultura del turismo il suo è «il principale dicastero economico del Paese perché si occupa di un patrimonio unico, originale e inimitabile», l’Italia può dare e avere di più. Il mondo è cambiato e fatichiamo a competere nella chimica, nella siderurgia, nel gigantismo portuale e nella industria pesante? Almeno nel turismo, peraltro ignorato dai sindacati nonostante rappresenti il settore dalle prospettive più rosee al mondo (1,8 miliardi di arrivi internazionali previsti nel 2030) dobbiamo giocarcela meglio.

Il rapporto del Cnr.
Lo riconosce il recentissimo «Rapporto sul turismo italiano 2016» del Cnr coordinato da Emilio Becheri e Giulio Maggiore: «In 10 anni, dal 2004 al 2014, l’Italia, essenzialmente a causa dell’andamento del suo turismo interno, ha aumentato le proprie presenze complessive (straniere e nazionali) del 9,3 per cento, un valore nettamente inferiore rispetto a quello dell’Unione Europea (oltre il 20%), inferiore a molte zone tradizionalmente poco vocate al turismo ma emergenti quali la Scandinavia (es. Svezia +22,5% e Finlandia +19%, e fuori dall’EU la Norvegia +21,1% e l’Islanda che in 10 anni ha più che raddoppiato le proprie presenze turistiche) e soprattutto le repubbliche baltiche (Estonia, Lettonia e Lituania, rispettivamente, +54,6%, + 101,3% e + 198,2%), ma anche inferiore a quello di Paesi comparabili e dal turismo consolidato come quelli dell’area mediterranea, Spagna (+17,3%), Portogallo (+31,8% ), Grecia (+81,0%)». Vale a dire tre Paesi in gravi difficoltà domestiche quanto noi. E lasciamo perdere la Francia dove il dato «è probabilmente distorto» da nuovi metodi di rilevamento. Per noi sarebbe umiliante: +42,2 per cento. Il quadruplo del nostro.
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I rallentamenti del turismo interno.
Statistiche alla mano «la stagnazione del turismo in Italia è tutta da attribuirsi alla domanda interna che ha sofferto maggiormente rispetto a quella di altri Paesi, quali Francia ed anche Spagna». Eppure, sospira il dossier, lo stesso World Economic Forum, con il TTC Index del 2015, «ha riconosciuto al nostro Paese il primato mondiale sulla dotazione del patrimonio storico-culturale e l’eccellenza sul turismo naturalistico, secondo nel ranking». Stando a «Country Brand Index 2014-15», a dirla tutta, restiamo primi anche sul cibo. Allora? Com’è possibile che l’anno scorso (a dispetto di chi strilla contro i gommoni dei profughi «che rovinano il turismo») la Grecia invasa dai barconi dei siriani sia cresciuta del 7,1 per cento cioè molto ma molto più di noi? Non sarà perché, come ci rinfaccia lo stesso World Economic Forum, l’Italia ha «gravi lacune a livello di “business environment”» (il contesto ambientale per chi fa impresa, a causa dei lacciuoli giuridici, fiscali e amministrativi) al punto che siamo al 127° posto? O che sui prezzi siamo addirittura centotrentatreesimi e cioè inavvicinabili per tanti turisti internazionali che si «accontentano» di andare in Grecia, Spagna o Croazia perché meno care del nostro Mezzogiorno? Quanto allo spreco di Roma, ne parleremo la prossima volta.

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1 commento:

  1. E in Italia c’è ancora molta strada da fare. A partire, banalmente dalla segnaletica. Non è un caso che oggi la maggior parte dei ciclioviaggiatori che vengono dall’estero si fermino all’altezza di Verona o si limitino a esplorare il Trentino, regione che ha investito molto sulle ciclabili turistiche. «La decisione di investire sulla Ciclovia del Sole, nella tratta che arriva fino a Firenze permetterà di ampliare ulteriormente l’offerta – spiega Giulietta Pagliaccio –. E il prossimo obiettivo è quello di arrivare fino a Roma». Investire in maniera strutturata sulle ciclovie rappresenta un passaggio importante, ma non sufficiente: «Occorre investire sull’intermodalità – spiega –. Chi organizza una vacanza in bici, ad esempio, può aver bisogno di portarla in treno per raggiungere il punto di partenza. E questo non è sempre facile. Altro problema è l’accesso alle città: anche quello deve essere messo in sicurezza. Se questo manca, allora ho perso qualcosa». Da sola, la ciclovia, non basta per lanciare il cicloturismo. Servono alberghi con servizi dedicati e servizi a 360 gradi per i turisti su due ruote.

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